Ondarock

Se non si trattasse di un motto già abbondantemente abusato, carpe diem potrebbe essere il nome ideale di quella che per convenzione, e in senso molto ampio, definiamo semplicemente libera improvvisazione. Una terminologia a sua volta scomoda, poiché dall’AMM in poi ci siamo lentamente abituati all’idea che, al di fuori della cerchia jazz, le sessioni improsiano in realtà un terreno di composizione sperimentale, benché irriproducibili (se non su supporti audio) nella stessa forma per mezzo di una partitura – e dunque relegate nel “qui e ora”.

Un anno dopo “Karpatklokke”, l’eccentrico e inortodosso trio Muddersten ha provato a creare un tema e svilupparne alcune variazioni possibili (i cosiddetti alt take), ma l’alchimia creatasi di volta in volta nello studio di registrazione li ha portati a dimenticare il materiale di partenza. Un “Private Pleasure” che si rinnova, sempre uguale nel metodo ma sempre diverso nel risultato finale: la nuova scena norvegese sembra sfuggire alla ripetizione senza alcuno sforzo, come fosse insito nella loro natura trovarsi a far parte di un costante divenire. Ed è di per sé curioso notare come l’interplay di Håvard Volden, Martin Taxt e Henrik Olsson sembri procedere per due volte in direzione opposta a un climax ascendente, andando anzi per gradi di progressiva rarefazione del gesto musicale.

Un accordo statico di organo getta le fondamenta per singoli suoni dapprima misurati, fra le pure tonalità della tuba (cifra distintiva del trio Microtub) e timidi feedback della chitarra, questa volta elettrica e amplificata. Un graduale accentramento di forze che viene annullato all’ingresso del lungo secondo segmento, sgomberato dal fondale per far lasciar muovere liberamente gli strumenti nel buio: si fanno strada i rimbrotti afoni di Taxt, mentre Olsson tiene il ritmo di un ritualismo atavico con percussioni gravi; le corde di Volden seguono traiettorie totalmente irregolari, nelle pause come nelle spontanee progressioni sul registro acuto. Così, a metà strada, il trio accetta di perdersi scientemente in una reciproca incomunicabilità, sconfinando in quella surreale ecologia sonora cui le label norvegesi Sofa e Hubro ci hanno ormai abituato – lo scorso anno, ad esempio, coi ritorni di Dans les arbres e O3.

D’improvviso, confermando le separate circostanze di ogni take, l’atmosfera si tinge di sfumature aliene e di interventi nervosi: il suono diafano della chitarra in tremolo segue una traiettoria vertiginosa, probabilmente con un bottleneck che discende verso il ponte, laddove le tastiere si perdono e destrutturano nell’ignoto linguaggio dei Supersilent post-“6” (non a caso pionieri loro conterranei); finché si giunge di nuovo a un finale putativo dove il dialogo fra i tre si gioca scientemente al ribasso, assorto in uno sfuggente puntillismo elettroacustico nel quale ogni input si dissocia dal suo strumento-luogo d’origine.

Ed ecco che si spiega anche la cover: prima dei collage di Richard Hamilton, prodromi della pop-art, l’arte classica aveva conosciuto le vanitas: dipinti di teschi, candele consumate e oggetti atti a simboleggiare la caducità dell’esistenza. Contro una musica strabordante di concettualismi, i Muddersten (e la scena norvegese tutta) fanno sfoggio ed elogio della loro vanità, ovvero di un “inutile” che, perlomeno, sia vissuto appieno