OndaRock

Da diversi anni la mia cultura sedentaria ammette una sola ipotetica eccezione: permane in me il sogno di visitare la Rothko Chapel situata a Houston, Texas; un luogo di “culto laico” ove chiunque, in qualunque giorno dell'anno, può entrare e trovare conforto spirituale. Quattordici grandi tele in sfumatura di nero dell'artista russo-americano circoscrivono una sala altrimenti spoglia – se non per qualche gradita panchina – illuminata dall'alto e funzionale alla contemplazione di questi imponenti varchi monocromi, mute e inesauribili fonti di sensazioni ancestrali. Entrare in questo unico tempio di vera pace dev'essere un evento autenticamente liminale, dal sentore fortemente kubrickiano, sovrastante e incodificabile (tanto che per descriverla a parole, ahimé, torna utile non averne fatto esperienza).

Si dice che più d'uno, al cospetto delle enormi color textures di Mark Rothko, non abbia potuto fare altro che gettarsi in ginocchio e piangere – di commozione o d'altro non è dato saperlo. In maniera analoga un altro artista può trovare la spinta a fornire un'umile risposta, magari altrettanto vaga ma nondimeno sincera e spontanea: fu per primo il grande Morton Feldman, amico dell'artista, a firmare l'eponima composizione nel 1971; e già la formazione dei Mural, divisa tra due membri norvegesi e uno australiano, richiama quella di un'altra monumentale dedica di Feldman al pittore Philip Guston.
Il trio ha visitato e “performato” più volte la Chapel, facendola risuonare con interventi live particolarmente appropriati al contesto, uno dei quali già prodotto nel 2011 dall'istituzione stessa.
Il triplo disco, registrato nel 2013 e oggi edito da Sofa, ripropone tre delle quattro ore complessive di performance, che si configura quindi come un confronto diretto con la componente primariamente temporale della musica in contrasto con l'immediatezza della superficie dipinta, afferente alla dimensione spaziale.

Bisogna predisporsi con determinazione – per quanto lo permettano i nostri luoghi quotidiani – all'atmosfera estremamente raccolta di questo evento poiché, nonostante la suddivisione dei tre cd ne osservi un'approssimativa scansione in macro-fasi, la dilatazione cronologica e gli elementi ricorrenti fanno sì che “Tempo” mantenga una sua interezza, come l'estratto parziale di una forma di vita sonora che, tra fisiologici pieni e vuoti, non ha idealmente né principio né fine.
La registrazione si apre con la chitarra archettata di Kim Myhr, che nel vibrante incedere dronico simula un r?ga indiano, e con gli stridenti moti subacquei del sassofono di Jim Denley, nello stile di Masahiko Okura. In solitaria fanno poi il loro ingresso le percussioni di Ingar Zach: il battito cardiaco della grancassa percossa col feltro, poi alcuni ottoni tonali che conducono a una nuova sezione, dove improvvise stoccate come di ghigliottina creano una tensione palpabile, attutita soltanto dal placido arpeggiare dello zither; quest'ultimo va poi a formare uno strato quasi rumoristico, che chiude la seconda ora tra involuzioni di fiati trillanti.

Il secondo cd inizia in maniera analoga al primo, ma con un clima se possibile ancor più rarefatto: un quieto assolo di sax, con tecniche al confine col silenzio o la microtonalità che al decimo minuto si privano addirittura del contatto con lo strumento, lasciando liberi nell'aria alcuni soffi; i pattern sempre uguali delle corde dissonanti somigliano a un imperterrito esercizio di stasi sonora alla Taku Sugimoto. Superato il quarto d'ora torna ad aumentare la velocità ma non il volume, così che il rituale prosegue come una manovra nel buio dall'ingresso riservato a pochi eletti. Dieci minuti più tardi sopraggiunge il vuoto quasi assoluto: un alito di vento, il frusciare di superfici in pelle appena sfiorate, un riflesso acustico quasi impercettibile fino alla richiusa circolare del sassofono, annuncio della prossima interruzione.
La quarta e ultima ora mantiene la sacralità del silenzio per alcuni minuti come preludio all'ultima, lunga e pacifica trance, ormai diretta conseguenza dello smarrimento della dimensione temporale, a maggior ragione in assenza di spartiti e indicazioni d'alcun tipo. I tre strumentisti tornano a incrociare i loro sentieri, più uniti che mai nel delineare soundscape naturalistici (20.00) o deliberatamente a-descrittivi. In “Coda” un estremo slancio di urgenza espressiva si manifesta attraverso un'entropia controllata, che in breve torna a spegnersi negli arpeggi conclusivi di Myhr.

Il tempo è dunque materia e chiave di lettura di questa singolare e affascinante performance: a noi, che oggi possiamo riascoltarla, manca soltanto il privilegio di assistere al magico dialogo di queste sonorità – a un passo dalla non-music – col monumentale silenzio dei Rothko, la cui essenza nessun supporto audiovisivo può realmente catturare