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Partiamo da una confessione sincera e umile: la recensione di questo disco è stata la più difficile da percepire, pensare, ordinare e trasporre in parole della (ancor non così lunga) carriera da giornalista improvvisato di chi scrive. E non certo (non solo) perché il disco in questione sia un quadruplo per più di tre ore e mezzo di ascolto. Ma proprio perché la domanda che sorge spontanea, e ad ogni ascolto si rafforza, è una sola: cosa c'è da dire di un lavoro che si colloca, per sua scelta, al di là delle comuni forme di fruizione del suono? Parlare di “Enough Still Not To Know” è come parlare di una serie di frazioni del “gomitolo” bergsoniano: le si può inquadrare ma come riuscire a connotarle, a circoscriverle in un insieme di aggettivi e parole, ma prima ancora a com-prenderle?

In questa sede il tentativo sarà dunque quello di spiegare non tanto “cosa c'è” in queste quattro suite, perché rimanendo sul piano del “cosa”, della ricerca di uno o più enti (acustici), qui dentro probabilmente troveremmo poco, anche se comunque troveremmo. Keith Rowe e John Tilbury sostanzialmente vanno in primis ad associarsi all'idea heideggeriana dell'Essere come “sfondo” in cui l'Ente si manifesta tale, e questo cercano di riprodurre qui. E come Heidegger arrivava a tracciare un'equazione conclusiva tra Essere e niente (ni-ente), anche i due fanno lo stesso qui col suono. Non sono ore di solo silenzio, no. Ma quasi. Il silenzio è la «radura» in cui il suono si manifesta nascondendosi, o si nasconde manifestandosi, entrambe le prospettive sono complementari e assolutamente possibili.

Ed eccoci dunque al punto: “Enough Still Not To Know” non è una trasposizione heideggeriana né un trattato di filosofia scritto col suono, bensì una ricerca che gira e rigira va a parare in un terreno che gli AMM hanno calcato a pieno regime: quello della circostanza. L'analisi del titolo offre in tal senso stimoli diversi in base alle prospettive di lettura: ancora abbastanza da non conoscere, che non si può conoscere ma forse e soprattutto che non si deve conoscere. Ma anche, volendo, ancora abbastanza da non-conoscere, che non si può (e non si deve) conoscere nel senso stretto della parola. Il mancato ricorso a un soggetto materiale (“qualcosa”) non è una casualità: non è di enti che si parla. Bensì di circostanze, appunto, o meglio del loro succedersi (il “gomitolo”, dicevamo) in-com-prendibile, inintellegibile, in-fondato e senza scopo.

Questa è solo una delle tante chiavi di lettura che l'ascolto di un simile monolite può produrre, o non-produrre, come forse più fedele alle intenzioni dei suoi autori. Che sostanzialmente trasformano l'improvvisazione in non-improvvisazione: non più un momento in cui sforzarsi e protendersi alla ricerca di una sovrapposizione (negli AMM strutturalmente e programmaticamente caotica) di tempi, spazi, movimenti. No, qui si perde l'idea stessa di una circostanza specifica in cui il suono sia protagonista, come se una telecamera riprendesse a getto continuo un medesimo luogo ignaro di essere registrato, in cui non avviene niente di programmato, niente di definito, in cui per certi versi proprio non avviene niente.

Nelle tre ore e mezzo raccontate da Rowe e Tilbury accade lo stesso: i due fanno e non fanno, suonano e stanno in silenzio, passeggiano, respirano, si lasciano andare a pulsioni estemporanee, seguendo esclusivamente il loro istinto e dando forma a frammenti (se paragonati a un “tutto” che potrebbe protrarsi all'infinito) di circostanze non-definite, non-volute, non-cercate. E se Tilbury con qualche nota sparsa qua e là ricorda ogni tanto che si sta ascoltando un disco, il contributo di Rowe è talmente sottopelle da essere quasi impossibile da percepire. Non è solo silenzio, si diceva: parafrasando nuovamente Heidegger è piuttosto un darsi sonoro nel nascondimento, che presuppone anche un “darsi” ontico (manifesto) necessario a evidenziare la differenza, limitato ma irrinunciabile.

La fruizione da parte dell'ascoltatore – e qui sta il vero colpo di genio, o per lo meno quello riscontrabile alla prova dell'ascolto – raggiunge inevitabilmente una dimensione singola e unica: quella dello “sfondo sonoro”. Per ascoltare davvero quanto raccolto in queste quattro suite serve non immergervisi e sforzarsi di prestare attenzione (ma passaggi di silenzio prolungati anche per decine di minuti di fatto bastano a impedirlo), contravvenendo così alla loro intrinseca dialettica “manifestazione”-“nascondimento”. Al contrario, è necessario effettivamente non conoscerle, o meglio ancora non-conoscerle. Farle entrare dunque all'interno della circostanza percettiva come un elemento costitutivo e non protagonista (e dunque, per conseguenza, accidentale).

Cosa scrivere dunque, giunti a questa conclusione? O meglio come pensare di poter scrivere di una ricerca che nasce per essere non-analizzata, non-vissuta se non come parte di un tutto potenzialmente infinito e dunque indescrivibile, in definitiva non-conosciuta? Di sicuro raccontare dei rintocchi e delle note sparse che rompono occasionalmente il silenzio totale della “First Part”, delle sezioni riverberate del piano attorno ai minuti 14-18 e 40-52 che duettano nel nulla con pagine di libro sfogliate e gracidii nella “Second Part”, delle prime battute presto interrotte à-la-Necks e della “presenza inudibile ma tangibile” di suoni sottopelle per tutto il resto della “Third Part” significherebbe semplicemente fare anti-cronaca, connotare qualcosa che non è connotabile, e come tale interpretare male anche il compito, mai così nefasto, di recensire un'opera.

E persino mettere in luce il carattere decisamente più “musicale” (nel contesto di un autentico saggio di non-music, e dunque solo a raffronto con le altre tre suite) della “Fourth Part” non rispetterebbe il fine primo della quadrilogia, che deve costitutivamente sfuggire ad ogni forma di necessità, di causa, di fine, di fruizione diretta. Non resta dunque altro da fare che fermarsi qui, inchinandosi di fronte a due maestri che raggiungono in questo saggio (non-)sonoro – di tale si tratta nel verso senso della parola – uno dei vertici della loro carriera, addentrandosi in una ricerca che dal suono (nulla più di una “via d'accesso” prediletta) conduce verso un'ipotesi di verità squisitamente ontologica. Ancora tutta da non(-)conoscere