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A rose is a rose is a rose, secondo la famosa citazione da una poesia di Gertrude Stein. Si possono cercare infiniti risvolti tematici, parallelismi e metafore per offrire un senso a ciò che vediamo o ascoltiamo. Ogni cosa però, in definitiva, è semplicemente ciò che è: bisogna fare un enorme sforzo per giungere a destrutturare la realtà e prenderne le distanze, e infine percepire ciascuno stimolo con sensi rinnovati. Sta a noi, dunque, la scelta sulla strada da percorrere, di fronte al nuovo trio presentato dall’etichetta norvegese Sofa, specializzata in free impro e avanguardie non-musicali.

Il kit informativo ci spiega che il “muddersten” è una roccia argillosa che conserva alcune proprietà del terreno fertile dal quale si forma, così che tra le fessure presenti nelle sue concrezioni possono spuntare piccole piante, alimentate dai liquidi che la materia rocciosa non può assorbire. Dunque materia solida, grezza, che sprigiona organismi elementari e fragili: un’immagine basilare per descrivere il contrasto fra sorgenti elettroniche e vibrazioni acustiche direttamente derivate dall’azione umana.
Oppure si può presupporre che ogni nuovo progetto, ogni nuova formazione ha il compito di creare un mondo sonoro, un suo proprio equilibrio che abbia o meno senso di per sé – come è ovvio nel dominio della sperimentazione. Sfida ancor meno scontata se gli elementi da conciliare sono una chitarra, una tuba, input elettronici e vari oggetti più o meno “risonanti”, come avviene nella mezz’ora di “Karpatklokke”.

Un breve curriculum collettivo dei tre artisti, ricorrenti perlopiù in progetti d’area locale: Håvard Volden, conosciuto attraverso The Island Band e il duo “Nude On Sand” a fianco di Jenny Hval; Martin Taxt, fiatista presto di ritorno coi Microtub sulla stessa etichetta; Henrik Olsson, uscito con gli Skogen su Another Timbre e con altre compagini relativamente esoteriche. Se escludiamo una sessione live incisa lo scorso anno su un lato di audiocassetta (30 copie numerate), si può dire che questo sia il loro debutto ufficiale in gruppo, che in effetti presenta un’alchimia piuttosto amorfa e sfuggente, ancora lontana dalla conquista di un’identità – per quanto transitoria.

L’aspetto forse più interessante di questa inusuale line-up, almeno per la prima metà, risiede nel dialogo costante tra il ribollire delle manipolazioni elettroniche e lo scoppiettìo afono della tuba microtonale, probabilmente l’ultima grande rivelazione nel nuovo vocabolario fiatistico della scena sperimentale; una sorgente inarrestabile in mutazione e la sua controparte più frammentaria, che unite vanno ad aprire uno scenario di possibilità gemello della musica elettroacustica propriamente detta.

Con “Strid Kråkefot” i tre si lasciano alle spalle l’interplay ermetico per aprire una breccia ed espellere detriti di suono più netti, mentre i bordoni di Taxt ricoprono lo spazio sonoro in maniera pervasiva. Ulteriormente tormentato lo sviluppo di “Høstfloks”, dove anche i loop e le storture su corda di Volden divengono finalmente una presenza non solo tangibile, ma addirittura determinante nel modificare la prospettiva del quadro d’insieme. L’ultima parola in “Sibiriris” spetta invece agli oggetti amplificati e alle percussioni di Olsson, che come a un tavolo di dissezione va ricercando la loro esistenza para-musicale alla maniera di Alvin Lucier.

Pur trattandosi, probabilmente, di un set collaudato diverse volte prima dell’incisione, l’incontro in studio immortalato in “Karpatklokke” restituisce intatto il brivido dell’hic et nunc improvvisativo e soddisfa il potenziale di un trio strumentale così improbabile, come solo l’humus culturale norvegese poteva partorirlo.