Onda Rock

Un anno fa gli aficionados della Rune Grammofon – e pochi altri – hanno assistito al debutto di una songwriter davvero coraggiosa e originale: dietro le corde e la voce cristallina di Jenny Hval si celano testi visionari, venati di una sensualità malsana e irrisolta, capaci di deviare l'espressività dell'autrice su un registro decisamente grottesco. Nel solco di quello stesso “confortevole disagio” viene inciso il mini-album dell'omonimo progetto Nude On Sand, che vede la suddetta in coppia con Håvard Volden, collega chitarrista tutt'altro che convenzionale.

Due strumentisti evidentemente talentuosi, ma che in questa sede rinunciano quasi del tutto alla certezza della loro tecnica per affidarsi alle dissonanze che – spesso in modo casuale – si sprigionano dalle loro chitarre acustiche; ed è in modo sorprendente che queste note riescono a intersecarsi andando a rafforzare la natura enigmatica dei testi che accompagnano (“Hello? Excuse me?/ I think you left something at my house.../ Oh yes... My virginity./ Bring. It. Back”). Il duo trova agio e univoca ispirazione in una formula folk della specie più libera e sbilenca, benché in ottima definizione rispetto alla tendenza dominante nella scena underground di questi ultimi anni – non a caso il pensiero va alla vocalist dei Big Blood, Colleen Kinsella. Si instaura qui, per certi versi, una straniante atmosfera neo-bucolica, come l'abbiamo già pregustata quest'anno nelle ingenue poesiole di Seamus Fogarty – gli sopravvive anche qualche tenue traccia di field recording– in generale, però, “Nude On Sand” cresce su un terreno di sperimentazioni consolidate più che su arrangiamenti del tutto premeditati.

Inevitabile che a farla da padrone sia di nuovo la straordinaria voce di Jenny Hval, tanto luminosa quanto talvolta inquietante: la sua tecnica si rivela ancor più chiaramente figlia di Meredith Monk, cui va riconosciuto il primato di ripetizioni sillabiche e di acuti improvvisi (“Running Down My”, “Enough With the Breathing II”); con la stessa audacia arriva a farsi il verso da sola, pizzicando le corde all'unisono con le sue divagazioni verbali (“Bring It Back”), intervallate da silenzi naturali e perciò carichi di tensione drammatica.
Da par suo, Volden corrode con perizia il sottile metallo delle sue corde, a mano libera e con l'archetto, fornendo un accompagnamento dinamico e decisivo per l'effetto disorientante del cantautorato di Jenny Hval. Nelle parole di Sofa Records, la loro poetica è di una “nudità beckettiana”, surrealmente essenziale, testardamente solipsistica. C'è rispetto per l'incompiutezza delle idee, che si sviluppano e si esauriscono senza alcun riguardo verso lo scorrere del tempo. Con ugual dedizione il duo circoscrive confusi bozzetti o indugia lungamente su uno stesso refrain, in modo quasi autistico. Nel labile confine tra canto e recitazione, Jenny Hval fa somigliare il tutto a un monologo schizoide, di cui le chitarre sono il perfetto parallelo strumentale.

Ogni nuovo ascolto è spiazzante, seducente – i francesi direbbero meglio “ravissant” – assolutamente unico. Con “Nude On Sand” riscopriamo l'ardore dell'avanguardia “analogica”, scevra da ornamenti e mediazioni che esulino dagli stimoli espressivi più immediati, quasi primitivi, che questo duo predilige senza riserve. Eccovi scritta un'altra pagina di creatività contemporanea degna d'essere conservata.

Michelle Palozzo